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CIVITAVECCHIA – Passeggiando nel cuore di Civitavecchia, da corso Centocelle a via Traiana, passando per il Ghetto, lo scenario è sempre più uniforme. Serrande abbassate, insegne spente, locali rimasti vuoti per mesi. E, accanto, nuove luci al neon che illuminano piccoli market aperti fino a tarda sera.
Negli ultimi mesi la loro crescita è diventata esponenziale: in un raggio di poche decine di metri, come racconta il commerciante Andrea Palmieri, davanti alla sua pizzeria se ne contano già cinque.
Non è un caso isolato. Una mappatura di Confcommercio parla di una trentina di minimarket aperti in città, con un’espansione partita dall’area del porto e da corso Marconi per poi allargarsi in tutto il centro. La loro diffusione, più che una moda, è la spia di una desertificazione commerciale che non riguarda solo Civitavecchia ma molte realtà urbane italiane, a partire da Roma.
«La domanda è inevitabile - scrive Palmieri, in un post sui social che ha aperto un ampio dibattito - perché ogni locale che si libera viene occupato da questo tipo di attività e non da imprenditori locali? La prima responsabilità è l’assenza di una rete d’impresa cittadina. In molte città, quando un locale si libera in centro, si cerca di favorire l’ingresso di realtà radicate sul territorio. Qui invece non accade: gli spazi vengono lasciati al mercato, senza alcuna visione di sviluppo comune. Gli affitti sono fuori mercato, insostenibili per chi vuole aprire una realtà radicata sul territorio».
Il risultato è un centro che perde autenticità. Le botteghe storiche chiudono, i negozi tradizionali arrancano, e al loro posto arrivano attività capaci di sostenersi con formule diverse da quelle a cui si è abituati.
«È un fenomeno che non riguarda solo Civitavecchia – osserva Cristiano Avolio di Confcommercio – ma molte città italiane a vocazione turistica. A spingere sono diversi fattori: la crisi del commercio tradizionale, stipendi fermi a fronte di spese crescenti, costi insostenibili per aprire un negozio “classico”. I minimarket, a gestione familiare, con orari flessibili e spese ridotte, risultano più competitivi».
Avolio però non si limita alla constatazione e propone possibili correttivi: «Bisogna pensare a incentivi fiscali per chi affitta a imprenditori locali, creando un circolo virtuoso. Avevamo anche suggerito di raggruppare i proprietari dei locali sfitti e proporre loro, ad esempio, di ospitare esposizioni di artisti civitavecchiesi nelle vetrine, così da evitare saracinesche abbassate che trasmettono abbandono. Idee concrete per restituire vitalità al centro, ma serve la volontà di tutti».
Sulla stessa linea si inserisce anche Alessio Gismondi, presidente della Cna: «Il commercio locale soffre per una tassazione eccessiva e costi proibitivi, a partire dal servizio rifiuti che non è neanche all’altezza di ciò che si paga. Aprire un negozio tradizionale è diventato insostenibile. I minimarket, al contrario, riescono a reggersi abbattendo le spese e lavorando in modo diverso, più produttivo. Il problema non è chi apre, ma che i locali restano sfitti per anni».
E aggiunge un invito alla prudenza: «Non bisogna criminalizzare nessuno. Finché rispettano le leggi hanno diritto di lavorare. La critica va rivolta piuttosto alla mancanza di regole chiare e di controlli a 360 gradi, dal commercio al decoro urbano, fino alla viabilità».
Dal Comune arriva una conferma dei limiti esistenti. «Con la liberalizzazione – spiega l’assessore al Commercio Enzo D’Antò – non possiamo impedire le aperture. Anche Roma ci ha provato ed è stata sconfitta al Tar. Possiamo intervenire solo sul decoro urbano e cercare di sostenere chi già opera, riducendo per quanto possibile i costi a carico delle imprese. Stiamo studiando misure di alleggerimento fiscale, dalla pubblicità alla possibilità di pagamenti agevolati, ma non è semplice. Servono risorse e soprattutto una normativa che ci consenta di incidere davvero».
Al momento il rischio è quello di un centro storico che si svuota di identità, consegnato alle sole logiche di mercato.
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