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FIUMICINO - Dai maltrattamenti in famiglia alla violenza sessuale, passando per lesioni, minacce e violenza privata: l’avvocato Gianfranco Carluccio, studio legale a Fiumicino, spiega quali condotte rientrano nei reati più ricorrenti nel contesto domestico e perché la continuità degli abusi, più che il singolo episodio, spesso fa la differenza sul piano penale.
Nel racconto dell’avvocato Carluccio, la cornice più grave e tipica della violenza domestica è il maltrattamento contro familiari e conviventi. Il punto chiave è l’abitualità: non basta un episodio isolato per parlare di maltrattamenti, perché la fattispecie si regge su condotte reiterate nel tempo, capaci di erodere la dignità e l’identità della persona offesa, fino a trasformare la quotidianità in un sistema di controllo e sopraffazione.
Il Codice penale punisce questi comportamenti con la reclusione da tre a sette anni, con aumenti di pena in presenza di condizioni aggravanti, come il fatto commesso in presenza o in danno di minori, di donna in gravidanza o di persona con disabilità, oltre al caso in cui la condotta sia commessa con armi.
Carluccio richiama anche l’aspetto “di territorio”: racconta di aver seguito procedimenti a Fiumicino, con esiti di condanna basati su un impianto probatorio fatto di certificati di pronto soccorso, testimonianze e riscontri, fino a casi conclusi con pene detentive rilevanti e conferme nei successivi gradi di giudizio.
L’avvocato insiste su un equivoco frequente: un singolo schiaffo, per quanto grave sul piano umano, non coincide automaticamente con i maltrattamenti. Nel perimetro del Codice, può invece ricadere in reati diversi.
Le percosse riguardano la violenza fisica che non provoca una malattia nel corpo o nella mente e, come regola, sono punite a querela.
Le lesioni personali scattano quando dall’azione deriva una malattia nel corpo o nella mente. La norma prevede la reclusione da sei mesi a tre anni e disciplina anche la querela per le ipotesi più lievi, ad esempio quando la malattia non supera i venti giorni e non ricorrono specifiche aggravanti.
È qui che il ragionamento, per chi racconta questi fatti, va tenuto pulito: “violenza” non è una parola unica, ma un insieme di fattispecie che cambiano molto per requisiti, prove e conseguenze.
Nel quadro delineato da Carluccio, un elemento ricorrente è la coercizione: incutere paura, controllare, costringere l’altro a fare o non fare qualcosa.
La minaccia punisce chi prospetta un ingiusto danno: in via ordinaria è prevista la querela, ma se la minaccia è grave o realizzata con modalità aggravate la pena può arrivare alla reclusione fino a un anno.
La violenza privata riguarda invece la costrizione, con violenza o minaccia, a fare, tollerare o omettere qualcosa: la pena arriva fino a quattro anni di reclusione, con aumenti in presenza di specifiche condizioni.
Il capitolo più duro è la violenza sessuale. Carluccio descrive la gravità della lesione inferta alla sfera intima della vittima e richiama casi affrontati anche nel territorio, sottolineando come, in questa materia, la dinamica della costrizione o dell’induzione sia centrale.
L’articolo 609-bis punisce chi, con violenza, minaccia o abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali con la reclusione da sei a dodici anni. La stessa pena si applica anche in caso di induzione, ad esempio abusando di condizioni di inferiorità fisica o psichica o tramite inganno per sostituzione di persona.
Il messaggio, in sostanza, è semplice e scomodo: nella violenza domestica non esistono scorciatoie narrative. Se si confonde il singolo episodio con la condotta sistematica, o si usa “maltrattamenti” come sinonimo di “qualsiasi aggressione”, si rischia di raccontare male sia la realtà sia il diritto. E quando si racconta male, si aiuta solo la confusione. Quella che, di solito, fa comodo a chi abusa.



