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Enrico Luciani non è mai stato uomo da salotti, e oggi lo rivendica con forza. La sua relazione al direttivo del Partito Democratico è un atto politico violento, diretto, spiazzante. Una scarica di picconate contro il “partito-famiglia”, come lo definisce senza mezzi termini. Un partito che – accusa – ha smesso di essere comunità per diventare cosa propria di pochi.
Luciani si dice estraneo ai circoli chiusi e alle stanze in cui si decidono le sorti del partito, in cui si stabiliscono nomine, strategie, alleanze, candidature. Lui – scrive – è entrato nel Pd con rispetto, con un “tesseramento soft” voluto da Bruno Astorre, accettando regole e percorsi. Ma ha trovato un partito chiuso, autoreferenziale, dominato da logiche consociative e personalistiche.
Nel mirino della sua requisitoria ci sono, pur senza mai essere nominati, Fabrizio Barbaranelli, figura storica della sinistra dai tempi del Pci e suocero del sindaco Piendibene, e Valentino Carluccio, con la moglie e consigliera CSP Rita Stella: altrettanto storici diccì che a Civitavecchia rappresentavano il compianto Bruno Astorre, già prima dell’accordo con Piendibene e Barbaranelli. Per Luciani, sono i simboli di un sistema in cui i ruoli si trasmettono più per legame di sangue che per consenso o confronto.
Un sistema che richiama da vicino il concetto – antico ma attualissimo – del “familismo amorale”, teorizzato dal politologo Edward Banfield nel 1958: quella cultura politica in cui si persegue l’interesse della propria cerchia ristretta a scapito del bene collettivo. Una logica che, secondo Luciani, ha finito per snaturare il Pd cittadino. «Io volevo rappresentare un partito aperto, libero e democratico», scrive, non «un partito che per è alcuni è cosa propria».
Ma Luciani non dimentica. E torna anche al 2012, quando fu battuto alle primarie da Pietro Tidei, l’altro grande “capo storico” del Pd locale, insieme a Barbaranelli. Un passaggio che ancora brucia, perché Luciani lo definisce chiaramente: «Un broglio elettorale». E anche oggi come allora denuncia «dietro un falso perbenismo, oscure trame per esautorarmi. Che povertà, che tristezza. Persone che poi vanno in chiesa a battersi il petto».
Luciani rivendica il lavoro fatto su dossier cruciali, come il confronto con Enel sulla dismissione del carbone, ma denuncia nomine “discutibili” e una totale mancanza di condivisione politica con il partito. Il passaggio più velenoso riguarda la vicenda Fiumaretta: “Civitavecchia è piccola, la gente parla, gli uccellini volano e chissà dove si posano… Una gran bella operazione, preparata dalla giunta Tedesco e servita su un piatto d’argento all’attuale amministrazione”. A cosa allude il compagno-segretario parlando di una operazione con 34 milioni di euro pubblici sul tavolo?
Poi arriva alle vicende internet: le tessere negate. “Un fatto gravissimo – scrive – che dimostra come alcuni considerino il partito cosa propria. Chi teme che il tesseramento possa ribaltare le attuali percentuali fa bene a temerlo: così sarà”.
È la dichiarazione di guerra, in attesa di un nodo cruciale che prima o poi dovrà essere sciolto: la posizione di Patrizio Scilipoti, assessore ai Lavori Pubblici, presidente della Compagnia Portuale, “figlioccio” politico di Luciani. Di fronte a un documento di tale durezza, a sua volta dovrà scegliere: restare fedele al suo padre politico, o schierarsi con il capo della giunta? Da questa scelta potrebbe dipendere molto, se non tutto: l’assetto della Giunta, la tenuta della maggioranza, il futuro del Pd locale.
Luciani ha picconato le fondamenta di un sistema che considera vecchio e malato. Ora vedremo chi resterà in piedi sotto le macerie.
La battaglia è solo all’inizio. E il Comandante vuole sapere chi è pronto a combatterla con lui o contro di lui, dentro e fuori il Pd: che diranno M5S e Avs, che poteri forti e “familiari” li avevano sempre combattuti, ora che, stando a quanto scritto nero su bianco dal segretario del Pd, di fatto condizionano l’amministrazione di cui anche loro fanno parte?
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