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CIVITAVECCHIA – L’attesissimo Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, presentato con successo al Festival del Cinema di Cannes, è finalmente arrivato nelle sale italiane. Un’epopea lunga più di tre ore con cui il regista si prende una grande responsabilità: chiedere scusa alle popolazioni native messe a tacere e cancellate dal potere colonialista. Il suo nuovo film, infatti, non è un’opera di fantasia, ma una storia vera (narrata in prima istanza nel libro Gli assassini della terra rossa di David Grann) che denuncia le violenze subite dalla popolazione degli Osage, “colpevole” di essersi insediata in Oklahoma e di essersi arricchita grazie ai giacimenti petroliferi ivi presenti. Nonostante la deportazione avvenuta alla fine dell’Ottocento, le ricchezze degli Osage iniziarono presto a prosperare, facendo insieme gola e invidia a quei pionieri che, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, decisero presto di investire su quelle terre e soprattutto su quei corpi considerati inferiori grazie a uno stratagemma vecchio come il mondo: sposare le donne Osage e avere da loro dei figli che avrebbero, un giorno, strappato ai nativi le proprie ricchezze. Colonialismo allo stato puro, dunque, che si espresse non solo nell’invasione delle terre ma anche dei corpi femminili.
Proprio da questa premessa parte Killers of the Flower Moon, che si pone immediatamente in dichiarata antitesi con quei colossi della storia del cinema, come Nascita di una nazione di Griffith, che celebrano proprio il colonialismo bianco senza scrupoli. Scorsese mette in scena un gangster movie contaminato con i codici del cinema western, in un prodotto che non solo risulta essere la summa del cinema di genere statunitense, ma anche una perfetta rappresentazione della lotta tra bene e male. Uno scontro incarnato da due volti celebri del cinema, e soprattutto familiari nella filmografia di Martin Scorsese: Robert De Niro e Leonardo DiCaprio. Due mostri sacri che, sfidandosi in una costante tensione morale, riescono a reggere bene sulle proprie spalle il ritmo della storia, in cui comunque non sfigura l’attrice Lily Gladstone, punta di diamante del film grazie alla sua interpretazione ricca di pathos e simbolo dell’orgoglio nativo, che restituisce dignità alle vittime del colonialismo.
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