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CIVITAVECCHIA – Una banda organizzata sotto il vincolo familistico, capace di spacciare, estorcere, fornire armi e all’occorrenza colpire duro.
A prima vista potrebbe sembrare uno dei tanti spaccati di una Civitavecchia conquistatrice di tristi primati, ma i riflettori si accendono in automatico su alcuni aspetti della storia sempre poco dibattuti.
Al vertice dell’organizzazione c’era un ventenne, un ragazzino capace di tirare i fili, di condurre il gioco secondo le congetture investigative, di agire da vero duro.
Capace di procurarsi un cellulare nel carcere dove era stato rinchiuso lo scorso gennaio e di utilizzarlo per informarsi sul mondo esterno, per sapere degli affari legati alla droga, per dare ordini precisi per recuperare i debiti.
Non è insolito intercettare giovanissimi nelle inchieste legate allo spaccio o al consumo di droga, ma raramente capita di imbattersi in un ventenne al vertice di un sodalizio criminale, pronto a espandersi grazie a una batteria di fedelissimi e a cospicui proventi ricavati da traffici illeciti.
Non a caso sommando l’età dei primi tre arrestati, quelli dello scorso gennaio, si supera di poco il mezzo secolo. Spacciatori della cosiddetta “Generazione Z”, che vendono droga su Telegram e poi consegnano fingendosi rider muniti di pizza a domicilio, o lo fanno girando tranquillamente in auto per le vie della città, stereo acceso, sigaretta tra le dita e gomito fuori dal finestrino.
Capaci però, all’occorrenza, di guardare agli stili di vita diversi dai loro, arrivando a individuare in un campo incolto un vero e proprio deposito per il loro market, dove seppellire cocaina e altre droghe da tirare fuori all’occorrenza.
E poi i soldi, tanti soldi: circa centocinquantamila euro cash da poter gestire e far fruttare per scopi criminali.
Ma il punto che colpisce maggiormente, quello più antipatico legato a questa storia, riguarda proprio il quantitativo di droga sequestrato: poco più di un chilo in un colpo solo, un altro chilo nel corso delle attività di riscontro portate avanti da Carabinieri e Polizia.
Lo sa bene il luogotenente Stefano Sorbelli, che al vertice della Stazione “Principale” dell’Arma ha seguito tutte le fasi dell’inchiesta, riuscendo a togliere dalla piazza di spaccio – tra una perquisizione e l’altra – diversi chili di bamba. Seimiladuecento dosi pronte per essere cedute, confezionate in soli cinquanta giorni tra marzo e aprile 2025.
Un quantitativo spropositato che apre la strada a numerosi interrogativi. Innanzitutto se una maggiore domanda di un bene o servizio tende a generare un aumento della sua offerta (questo almeno prevedono i dettami del libero mercato) e se davvero l’organizzazione criminale in questione gestiva gli affari come un vero e proprio market della droga, come un’azienda a conduzione familiare, allora quanta richiesta di droga c’è sul territorio di Civitavecchia?
Quanti giovani e meno giovani fanno uso di sostanze stupefacenti in maniera abituale e non solo occasionale? Quanti tossicodipendenti percorrono ogni giorno le strade di Civitavecchia e in quali condizioni? Sono domande che da troppo tempo richiedono risposte da parte delle istituzioni, degli organi competenti e che alla luce della recente inchiesta si ripropongono in maniera più incisiva, più insistente e probabilmente più sdegnosa vista la posta in gioco.
Perché se all’apice gli spacciatori giocano un ruolo da leone, in fondo alla catena ci sono i consumatori, spesso giovani, figli di famiglie poco attente o semplicemente assenti.
Nelle intercapedini di questi ragionamenti post-inchiesta devono necessariamente inserirsi le istituzioni, il Comune, la Asl, i Servizi sociali.
A loro il compito di cercare soluzioni prima che sia troppo tardi.