di FRANCESCA PATTI



CIVITAVECCHIA - Di ritorno dal Marocco, Erwin Cipriano e Francesca Patti, civitavecchiesi di adozione ed esperti di bike trails senza supporto, ci raccontano la loro avventura, il Naturaid Marocco Impossible.



"Fare un Trail senza supporto, innanzitutto vuol dire caricare la bicicletta di tutto il necessario, caricare sul gps una traccia che chi ha organizzato il trail vuole che si percorra e partire. Questa volta il nostro percorso si snodava sulle montagne dell’Alto Atlante marocchino e il deserto del Saghro, per un totale di 680 km. In questo tipo di eventi non esiste un tempo limite, se non quello che ognuno si pone (ad esempio nel nostro caso il volo aereo prenotato) e non esiste nessun supporto dall’organizzazione quindi bisogna essere autosufficienti sia per dormire che per mangiare. E fin qui la parte tecnica. Partiamo in 30 il 6 novembre alle 6,00 della mattina, ognuno seguirà il suo passo, ognuno sceglierà il suo ritmo di viaggio: c’è chi cercherà di finirlo nel minor tempo possibile e chi, come noi, decide di gustarsi questa terra così sconosciuta.



Sapevamo che non sarebbe stato facile: il percorso abbastanza scorrevole ma comunque di montagna (abbiamo toccato diverse volte cime tra i 2500 e i 3000 metri) ha messo alla prova le gambe anche più allenate. La difficoltà nel reperire acqua potabile e cibo si è fatta subito sentire nel primo giorno, e ci siamo resi conto che tutto sarebbe stato molto più difficile, oltre ogni nostra previsione.



Poi la sorpresa… quello che ci farà ricordare questo trail per sempre: i berberi. Popolazione di pastori poverissimi, coi loro villaggi montani fatti di argilla e paglia, dello stesso identico colore delle montagne, dove l’acqua corrente e il gas sono un miraggio, dove la luce elettrica, quando c’è, non è per 24h, dove il ritmo delle giornate è scandito dal sorgere e tramontare del sole, dove le strade spesso sono una nuvola di polvere, dove i bambini scalzi chiedono caramelle e penne. I berberi sono stati la nostra sicurezza,  fieri e dall’ospitalità senza eguali ci hanno sfamato, fatto dormire e coccolato in un modo che andava e va oltre la nostra idea di accoglienza. Bastava che ci vedessero fermi e ci offrivano la loro casa, i loro morbidi tappeti su cui dormire, spesso la loro cena, onorati di poterla dividere con noi. In quel momento loro, poveri di tutto, stavano dando a noi, loro ospiti, tutto il loro essere, facendoci sentire al sicuro.



Una sensazione che non ci abbandonerà mai più… dal primo incontro il nostro viaggio è trascorso più sereno, sapevamo che ogni porta bussata sarebbe stata aperta da qualcuno che non si sarebbe posto il problema di avere sconosciuti in casa, ma sapeva che avrebbe avuto degli ospiti da trattare come familiari.



Alla fine del viaggio, dopo 5 giorni e 10 ore, ognuno di noi sapeva che avrebbe lasciato un pezzo di cuore in quelle terre, ma che avrebbe portato via qualcosa che rimarrà sempre. Come in un album fotografico ci sono delle istantanee che racchiudono l’essenza di questa nostra avventura: il tramonto sulle rosse montagne della Valle delle Rose, gli strapiombi vertiginosi su microscopici fiumi, i villaggi di argilla e paglia, il rumore delle pietre che le donne usano per lavare i panni nei fiumi, il profumo delle mele, gli occhi dei bambini guardiani di capre a 3000 mt, il suono di un flauto nel silenzio delle montagne, la sterminata distesa del deserto dove ogni riferimento finisce con la sottile linea dell’orizzonte.



Mai avremo pensato che questa terra entrasse dentro di noi con tanta dirompenza, che si insinuasse dentro ogni nostra piega come la polvere che per giorni ci ha accompagnato, che ci facesse pensare a quanto noi abbiamo e a quanto noi diamo, che un popolo così povero ci donasse il poco aveva perché in quel momento noi eravamo più poveri di loro, un popolo che ci facesse ricordare in modo così profondo quanto sia più importante essere che avere”.