ANFORAdi CRISTIANA MORI

Si infittisce il mistero riguardo l’antica anfora romana ritrovata in località Punta delle Quaglie.
Stando a quanto riferito dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, il reperto, recuperato nei giorni scorsi dalla squadra Nautica di Civitavecchia, sarebbe stato rinvenuto in condizioni di “singolare isolamento” (cioè non nelle vicinanze di altri reperti simili o di relitti di navi, come invece sarebbe stato logico aspettarsi).
Elemento questo che fa ritenere probabile che il luogo di ritrovamento non fosse quello originale, in cui il vaso si è conservato per secoli. Tesi peraltro avvalorata, spiegano sempre dalla Soprintendenza, dalla presenza di una particolare “marcatura visiva”, una sorta di segnale collocato da chi l’aveva portata fin lì con l’evidente intenzione di tornare a recuperarla a breve.
Si tratta, spiegano da Villa Giulia, di un pezzo non rarissimo, ma comunque di grande valore, anche in virtù del suo ottimo stato di conservazione. Un pezzo unico di ceramica alto circa 90 centimetri, con due anse (i due manici) ancora intatte ed un puntale sul fondo, utilizzato per incastrare sul legno gli splendidi contenitori, disposti in file, e renderne comodo il trasporto sulle navi, dove solitamente ne venivano stivati a centinaia. Ragione per la quale appare ancora più improbabile che accanto a questo particolare vaso non ne siano stati ritrovati altri. Queste anfore erano prodotte sulle coste adriatiche e poi diffuse in tutto il mondo attraverso il commercio. Erano utilizzate per il trasporto di liquidi come olio e salse, ma il particolare tipo rinvenuto a Civitavecchia, simile alla tipologia detta “Lamboglia 2” (dal nome dello studioso, che ne curò la classificazione) era utilizzata per trasportare vino, come dimostra anche la particolare impeciatura interna, realizzata appositamente per evitare che il contenuto entrasse direttamente a contatto con la ceramica. Sul suo utilizzo in ogni caso non ci sono dubbi sebbene del vaso non sia stato rinvenuto il tappo. Ora il reperto, datato approssimativamente tra il II ed il I sec. a.C. (impossibile essere più precisi, vista l’assenza di altri indizi sul luogo del ritrovamento), è conservato presso i locali della Soprintendenza a Civitavecchia, completamente immerso in acqua, ed è sottoposto ad un delicato e lungo intervento di pulitura e desalinizzazione, che potrebbe durare settimane. Un’operazione necessaria, per evitare che il sale stratificatosi in ben oltre venti secoli di permanenza sui fondali marini, e che deve essere espulso gradualmente, si cristallizzi e danneggi l’anfora.
Terminata la fase di recupero all’ente dell’Etruria Meridionale spetterà poi il compito di effettuare una stima del suo valore, attraverso una griglia fornita dal Ministero dei Beni Culturali. Impossibile per ora dare cifre approssimative, visto l’alto numero di variabili di cui tenere conto. «A suo favore - dicono dalla Soprintendenza - gioca di certo l’ottimo stato di conservazione. Ma a suo discapito non possiamo non considerare il fatto di non poter contestualizzare il reperto, del quale non conosciamo la collocazione originaria».
Un recupero comunque a suo modo eccezionale, trattandosi di un vero e proprio “salvataggio” di un reperto dal grande valore culturale, lasciato in quel posto per ragioni ancora ignote, e che, secondo la Soprintendenza, sarebbe stato a breve portato via per poi diventare parte di qualche collezione privata, anziché essere acquisito, come invece accadrà, tra i tesori della collettività.