Non basterebbe un libro per parlare del miglior pugile di tutta la storia, Muhammad Alì. Nato a Louisville, nel Kentucky il 17 gennaio 1942, non fu solo un atleta leggendario, ma anche un personaggio a tutto tondo, sia a livello mediatico che politico. A soli 18 anni conquistò l’oro olimpico nel pugilato a Roma 1960. Alla medaglia più ambita dei Giochi è legato un fatto divenuto storia. Al ritorno in USA, gli fu vietato di entrare con un amico in un ristorante per via del colore della sua pelle. Il suo animo ribelle gli fece gettare la medaglia nel fiume Ohio. Gli venne consegnata una copia alle Olimpiadi di Atlanta 1996, quando accese il braciere olimpico mostrando al mondo il morbo di Parkinson che lo aveva colpito negli ultimi anni della sua vita. Subito dopo le Olimpiadi del 1960 passò nei professionisti e vinse il titolo mondiale nel 1964, a soli 22 anni, battendo a sorpresa il campione Sonny Liston. La sua carriera venne fermata nel 1967, quando fu arrestato dalla polizia per renitenza alla leva perché si rifiutò di combattere come soldato in Vietnam. Famosa fu la sua frase: “nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”. Si convertì all’Islam, seguendo la Nation of Islam (NOI) di Elijah Muhammad, e cambiò il suo nome di battesimo Cassius Clay, da lui ritenuto “da schiavo”, in Muhammad Alì. La sua opinione politica venne influenzata da Malcom X, che conobbe personalmente con cui strinse una forte amicizia. Dopo l’arresto non gli permisero di combattere per tre lunghi anni e gli venne anche tolto il titolo di campione del mondo. Alì fece appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che gli diede ragione, come obiettore di coscienza nel 1971. Un personaggio a tutto tondo, sposato quattro volte con 9 figli, divenne un simbolo della lotta del l’organizzazione politica “Potere Nero”. Soprannominato “The Greatest”, il più grande, fu l’inventore del trash-talking, ossia la modalità irriverente di mettere in difficoltà l’avversario prima del Match. Nel 1984 gli venne diagnosticato il Parkinson, e alcuni affermano tutt’oggi che una delle cause potrebbe risiedere nel famoso quanto drammatico match, ribattezzato “Rumble in the Jungle” contro George Foreman in Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo del 1974. L’incontro gli valse la riconquista del titolo mondiale dopo sette anni, da cui ne scaturì anche un film documentario “When We Were Kings”. Morì nel 2016 a Scottsdale.

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