Roma, 12 lug. (Adnkronos) - Nel caso in cui i dazi imposti dallamministrazione Trump dovessero rimanere gli stessi di oggi, costerebbero all'Italia 3,5 miliardi di euro circa di mancate esportazioni. Se, invece, le tariffe doganali dovessero essere innalzate al 20%, il danno economico ammonterebbe fino a 12 miliardi di euro. Sono le stime dell'Ufficio studi della Cgia, in base alle elaborazioni fatte qualche mese fa dallOcse. Si tratta, specifica l'istituto, di importi che non includevano limpatto economico di eventuali tariffe che potrebbero essere applicate su singoli prodotti merceologici. LItalia è un Paese con una forte vocazione allexport verso gli Usa (nel 2024 la dimensione economica è stata pari a 64,7 miliardi di euro) e in attesa che il presidente Trump ufficializzi lintensità dei dazi, le cifre richiamate più sopra dovranno misurarsi, indica la Cgia nella sua analisi, con i seguenti interrogativi: i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy? A seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli Usa, contenendo i margini di profitto? Sono domande a cui non è per nulla facile dare una risposta, scrive la Cgia. Tuttavia, la Banca dItalia ricorda che il 43 per cento delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 per cento di qualità media. Pertanto, sono prodotti che, verosimilmente, sono diretti ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dallintroduzione di nuove barriere doganali. In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato allincremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane che esportano negli Usa presentano una incidenza delle vendite in questo mercato 'solo' del 5,5 per cento del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo è mediamente pari al 10 per cento dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale 'chiusura' di questo mercato inciderebbe relativamente poco. Il Paese a stelle e strisce rappresenta il secondo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, con un valore annuale che nel 2024 ha toccato i 64,7 miliardi di euro, pari al 9 per cento circa dellintero export nazionale. In particolare, le categorie merceologiche maggiormente esportate negli Usa includono i prodotti chimici/farmaceutici, gli autoveicoli, le navi/imbarcazioni e le macchine di impiego generale. Tali voci incidono per oltre il 40 per cento delle vendite totali nel mercato statunitense. Il numero degli operatori commerciali italiani attivi negli Stati Uniti è relativamente contenuto, ammontando a poco meno di 44mila unità; a questo dato si devono aggiungere le imprese dell'indotto non contabilizzate nelle statistiche Istat. I dazi voluti dallamministrazione Trump potrebbero penalizzare, in particolare, le esportazioni del Mezzogiorno. A differenza del resto del Paese, infatti, la quasi totalità delle regioni del Sud presenta una bassa diversificazione dei prodotti venduti nei mercati esteri. Pertanto, se dopo lacciaio, lalluminio e i loro derivati, gli autoveicoli e la componentistica auto gli Usa e, a catena, altri Paesi del mondo, decidessero di innalzare le barriere commerciali anche ad altri beni, gli effetti negativi per il nostro sistema produttivo potrebbero abbattersi maggiormente nei territori dove la dimensione economica dellexport è fortemente condizionata da pochi settori merceologici. Lanalisi realizzata dallUfficio studi della Cgia si fonda sulla misurazione dellindice di diversificazione di prodotto dellexport per regione; parametro che pesa il valore economico delle esportazioni dei primi 10 gruppi merceologici sul totale regionale delle vendite allestero. Laddove lindice di diversificazione è meno elevato, tanto più lexport regionale è differenziato, risultando così meno sensibile a eventuali sconvolgimenti nel commercio internazionale. Diversamente, tanto più è elevata lincidenza del valore dei primi 10 prodotti esportati sulle vendite allestero complessive, quel territorio risulta essere più esposto alle potenziali congiunture negative del commercio internazionale. La regione che a livello nazionale presenta lindice di diversificazione peggiore è la Sardegna (95,6 per cento), dove domina lexport dei prodotti derivanti della raffinazione del petrolio. Seguono il Molise (86,9 per cento), caratterizzato da un peso particolarmente elevato della vendita dei prodotti chimici/materie plastiche e gomma, autoveicoli e prodotti da forno, e la Sicilia (85 per cento), che presenta una forte vocazione nella raffinazione dei prodotti petroliferi. Tra le realtà territoriali del Mezzogiorno, solo la Puglia presenta un livello di diversificazione elevato (49,8 per cento). Un dato che la colloca al terzo posto a livello nazionale tra le regioni potenzialmente meno a rischio da uneventuale estensione dei dazi ad altri prodotti merceologici. Ad eccezione della Puglia, le aree geografiche teoricamente meno in pericolo sono tutte del Nord. La Lombardia (con un indice del 43 per cento) è ipoteticamente la meno a rischio. Seguono il Veneto (46,8), la Puglia (49,8), il Trentino Alto Adige (51,1), lEmilia Romagna (53,9) e il Piemonte (54,8). La Città Metropolitana di Milano è larea geografica del Paese che esporta di più verso gli Stati Uniti: nel 2024 le vendite hanno toccato i 6,35 miliardi di euro. Seguono Firenze con 6,17, Modena con 3,1, Bologna con 2,6 e Torino con 2,5. Tutte assieme queste cinque realtà territoriali esportano quasi un terzo del totale nazionale delle merci destinate negli Usa.