CIVITAVECCHIA – Civitavecchia ricorda la pagina più buia della sua storia: quella dei bombardamenti che praticamente la rasero al suolo. La data del 14 maggio 1943 divise bruscamente la cronologia cittadina, un prima in cui Civitavecchia era meta turistica e un dopo fatto di polvere, fame e macerie. Adriana Bonifazi ha deciso di mettere nero su bianco quei drammatici giorni, quelle ore fatte di ansia, paura e attesa con un libro dal titolo “Ricordi di una nonna”. «Ho deciso - racconta Bonifazi - di scrivere per i miei nipoti, perché conoscano questa storia, sappiano cos’era prima Civitavecchia e cosa è stato dopo. Vedere le immagini della guerra in tv, i bambini ucraini nei bunker sotto le bombe mi ha riportato tutto alla memoria prepotentemente. Quindi ho scritto».

LA TESTIMONIANZA - «Avevo sette anni, frequentavo la seconda classe elementare, l’anno scolastico era quasi al termine, ero una bambina allegra e spensierata, quando un evento terribile e gli accadimenti successivi cambiarono totalmente la mia vita. Quel pomeriggio del 14 maggio 1943 eravamo tutte e quattro in cucina, intorno al tavolo: io, ginocchioni su una sedia, guardavo le illustrazioni e le foto della Domenica del Corriere e della Tribuna illustrata, le spalle alla porta-finestra del bacone sul cortile interno; dall’altra parte del tavolo, la signora Verde, inquilina del piano di sotto e amica di mia madre, che veniva a trovare spesso nel primo pomeriggio; seduta accanto a lei, mia madre, che teneva mia sorella sulle ginocchia. Conversavano piacevolmente, a bassa voce; c’era calma in casa, la cena era già stata preparata, i lavori ultimati. Ad un tratto un boato, poi un altro e altri ancora.

Mia madre urlò: «Bombardano!». Si alzò di scatto, afferrò mia sorella e seguita da me e dall’amica si precipitò alla porta. Dovevamo fare presto, eravamo al quarto piano e c’erano da scendere numerosi gradini. Arrivati al terzo piano la signora Verde si fermò per aprire la porta di casa sua. «Lasci stare!» le urlò mia madre, ma lei sembrò non sentirla. Sparì dentro. Noi continuammo a scendere insieme con altre persone dei piani di sotto. Io mi guardavo dietro preoccupata, ma dopo poco rividi la signora Verde dietro di me. Aveva un cuscino in testa e scendendo più rapida di me, passandomi vicina, mi prese per la mano. Nel seminterrato c’erano, ormai, tutti gli inquilini presenti in quel momento nel palazzo, quasi tutte donne. Le porte dei due appartamenti erano spalancate e la gente vi entrava liberamente, come stabilito; mia madre ci condusse in una camera da letto e ci nascose, quasi, dietro un comodino, poi prese dal letto i cuscini e ce li mise in testa uno sull’altro.

Mia sorella piangeva, io ero spaventata, ma, essendo la maggiore, dovevo fare la coraggiosa. C’era nella stanza un giovanottone, figlio della padrona di casa, che si aggirava perplesso in quella confusione. Continuavano a sentirsi il rombo pesante degli aerei e i boati. «Non finisce più!» gridò mia madre e si piegava protettiva su di noi. A quel punto, mentre c’era chi pregava ad alta voce e chi si stringeva ai suoi, quel povero ragazzo impotente e disperato come tutti, non reggendo più alla situazione, cominciò a gridare e a darsi pugni in testa. «Che ha?» chiedi, «Niente, niente» rispose mia madre e intanto ci teneva sempre più strette. Il bombardamento continuò ancora per un po’. Poi il rombo degli aerei si allontanò. Nessuno si mosse. Alcuni guardavano dalle finestre a raso sulla strada. Si cominciò a vedere qualcuno che veniva correndo su via Annovazzi. «Aspettate che è successo?» «Hanno sganciato al porto e in centro, un macello». Mia madre mi guardò: «Nonna è morta!». Mia nonna Maddalena, detta Nena, tutti i senti giorni, qualunque fosse il tempo, andava a trovare il fratello Piero, che aveva il forno incentro, e con lui e la sua famiglia si tratteneva fino a pomeriggio inoltrato. Io non avevo ancora ben chiara un’idea di morte, voleva forse dire che non l’avrei rivista più? Piano piano la gente scemò, la stanza si svuotò e anche noi uscimmo per tornare nel nostro appartamento. Sentivo un gran peso dentro, che mi faceva star male, ma non capivo.

Uno ad uno gli uomini della famiglia rientrarono a casa: prima zio Gino, che lavorava in una via limitrofa, poi nonno Umberto e zio Giovanni, quindi mio padre, che veniva dall’aeroporto di Furbara… e, infine, mia nonna, sconvolta per ciò che era avvenuto e aveva visto, ma sana e salva. «Grazie, grazie Signore Iddio». Tutti erano stravolti, Mio padre andò a cercare le sorelle: tutte bene; non c’erano, però, notizie di mio cugino Renato, che era al porto come spedizioniere. Al mattino, da Montalto, arrivò zio Dante, un altro fratello di mia nonna. Ci fu un conciliabolo tra tutti gli adulti, cui s’erano aggiunte le sorelle di mio padre e i miei cugini Anna e Piero, e furono prese delle decisioni. Lo zio Dante ritornò al paese e io gli fui affidata. La cosa non mi piacque, non lo conoscevo, se non per nome. Alla stazione di Civitavecchia, vedendomi, forse, triste, mi comprò delle caramelle, che non mangiai.

Qualcuno ci venne a prendere alla stazione di Montalto e, con l’angoscia dell’abbandono, mi ritrovai in una casa sconosciuta, tra gente mai vista, che mi baciava e mi accarezzava e mi faceva tante domande alle quali io, spesso, non sapevo rispondere».

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