Pas e Port Mobility. Due società che svolgono servizi in ambito portuale. La prima partecipata al 100% dall’Autorità di Sistema Portuale, la seconda società concessionaria di servizi di interesse economico generale, costituita dall’Authority sulla base del “Decreto Fiori”, con una partecipazione di minoranza dell’ente, che poi ha dovuto dismetterla.

Due società con storie, mission e situazioni diverse, ma che in questi giorni si trovano ad essere accomunate per le scelte compiute dai rispettivi dipendenti, anche contro l’orientamento delle organizzazioni sindacali.

Partiamo da Pas: la società lo scorso anno, dopo essere stata al centro di vicende anche di natura penale (il processo è iniziato nei giorni scorsi), si è trovata a un passo dall’essere messa in liquidazione per l’ennesima perdita che aveva eroso quasi tutto il capitale con la contemporanea impossibilità del socio pubblico di intervenire per ripianare e ricapitalizzare.

Musolino e Risso, allora arrivati da poco alla guida dell’Adsp, trovarono la strada per salvare azienda e posti di lavoro (65) e nei giorni scorsi è stato approvato il bilancio di esercizio 2021, che riporta i conti in equilibrio. Nonostante questo, il tasso di assenteismo non è propriamente nipponico, fioccano le cause di lavoro e anche per la prossima estate, con l’attesa ripartenza delle crociere e delle attività portuali, con ogni probabilità sarà necessario ricorrere ad assunzioni stagionali o a sostenere comunque altri costi per chiedere “rinforzi” necessari a garantire i servizi. Di firmare il contratto integrativo per assicurare una maggiore dinamicità nella gestione del personale neppure a parlarne. Con il risultato che nel 2023, a fine convenzione, il socio dovrà fare le proprie valutazioni per verificare se sia ancora conveniente e legittimo affidare i servizi di security ad una società in house (che deve garantire in primis l’economicità della gestione) oppure se non si debba andare sul mercato.

Situazione per certi versi simile a Port Mobility, che dopo la scesa in campo di un bel pezzo di politica per evitare i licenziamenti, ha sottoposto a referendum aziendale un pacchetto di misure comprendenti, in estrema sintesi, il ricorso agli ammortizzatori sociali (invece appunto del taglio di 26 posti) insieme a un accordo integrativo mirato anche in questo caso a garantire la flessibilità necessaria per coprire i turni estivi e i picchi di lavoro. Quindi, rispetto alla situazione creatasi un mese fa, niente più tagli e un accordo che nelle settimane scorse sarebbe stato sottoscritto ad occhi chiusi, dopo l’intervento di garanzia risolutivo del Presidente Musolino e quello altrettanto risolutivo e responsabile del proprietario dell’azienda Azzopardi.

Oggi, invece, hanno vinto i “no” che francamente a noi osservatori esterni (ma forse neppure a quelli interni) non è chiaro a cosa mirino veramente: il “no” all’accordo appare infatti equivalente a un “sì” ai licenziamenti e dopo quanto accaduto difficilmente qualche politico o rappresentante istituzionale vorrà ancora farsi carico di una questione nella quale qualcuno ha voluto tirare una corda che ha finito per spezzarsi, anche con un voltafaccia a scapito di chi nel sindacato aveva lavorato per portare a casa la salvaguardia dei posti di lavoro e un accordo più che dignitoso, in un momento difficile come quello attuale. Solo il tempo ci dirà chi sono i veri responsabili di questo harakiri e che cosa speravano di ottenere.

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