CIVITAVECCHIA – Due donne uccise dall’inizio dell’anno a Civitavecchia. L’ultima, appena due settimane fa. Una scia di sangue che si inserisce in un quadro nazionale allarmante: solo nel primo trimestre del 2025, 17 donne sono state uccise in Italia, spesso da chi diceva di amarle. «Una vera e propria mattanza», la definisce il procuratore capo di Civitavecchia, Alberto Liguori, che dalle colonne del quotidiano Il Dubbio propone una riflessione severa ma costruttiva su ciò che non ha funzionato e su ciò che ancora può, e deve, essere fatto.

Nonostante il rafforzamento degli strumenti di contrasto alla violenza di genere – come l’anticipo dell’ascolto della vittima entro tre giorni dalla denuncia e la valutazione del quadro cautelare entro trenta – i numeri raccontano una realtà inquietante: «Anche con le misure più stringenti, come l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento e l’utilizzo del braccialetto elettronico, la prevenzione spesso si rivela inefficace».

Per Liguori è tempo di cambiare paradigma. «Serve un approccio che non sia solo repressivo, ma anche terapeutico e preventivo», scrive. In pratica, occorre agire sull’autore di violenza, affrontando fin da subito le cause profonde del suo agire, spesso legate a disturbi psichici, dipendenze, relazioni tossiche. Liguori propone una svolta strutturale: la presenza obbligatoria di uno psicologo fin dalle prime fasi dell’indagine, in ausilio alla polizia giudiziaria, per affiancare la vittima e contribuire alla valutazione del rischio secondo il protocollo SARA (Spousal Assault Risk Assessment).

Ma non solo. Il procuratore suggerisce che, nei trenta giorni a disposizione del pubblico ministero per decidere sulle misure cautelari, l’autore venga preso in carico da uno dei Centri per uomini autori di violenza (CUAV). Un tempo utile, questo, per avviare percorsi terapeutici che non siano un premio in vista di benefici processuali, ma strumenti di reale prevenzione. «Oggi la sottoposizione a questi programmi è facoltativa e spesso subordinata a una logica premiale – osserva Liguori – ma non basta più. La posta in gioco è il bene della vita».

L’approccio proposto è tanto innovativo quanto radicale: accompagnare alle tradizionali misure coercitive – come l’allontanamento o il braccialetto elettronico – l’obbligo di frequentazione di programmi specifici. In caso di rifiuto, dovrebbe scattare automaticamente una misura più afflittiva, proprio come accade per la violazione del divieto di avvicinamento. Nel suo ragionamento, Liguori non trascura il tema della libertà e del diritto alla salute anche per chi ha commesso reati. «L’autore di maltrattamenti, stalking o femminicidio è, prima che un delinquente, un paziente affetto da disturbi della personalità. Prevenire significa capire quel malessere prima che diventi reato».

Il sistema penale, insomma, da solo non basta. Serve uno “sforzo culturale” che coniughi sicurezza, giustizia e trattamento terapeutico. Un cambio di mentalità che superi la logica emergenziale e punitiva, per affermare un principio semplice e insieme rivoluzionario: si può (e si deve) intervenire prima che sia troppo tardi.