ENRICO CIANCARINI

CIVITAVECCHIA – Ho conosciuto Henry Beyle Stendhal console di Francia a Civitavecchia leggendo l’omonimo saggio scritto e pubblicato nel 1963 da Fernando Barbaranelli.

Nella presentazione del sindaco di allora, Renato Pucci, si legge che era intenzione dell’amministrazione comunale da lui presieduta “far conoscere ai cittadini ciò che fu la vita dello scrittore nel decennale soggiorno nella città, e ha dato perciò incarico all’Assessore Municipale, Fernando Barbaranelli, cultore di storia locale, di narrarne gli episodi più significativi”.

L’anno dopo Civitavecchia ospitava il IV Congres International Stendhalien dal 6 all’8 marzo. Negli atti del Congresso, pubblicati nel 1966, a Barbaranelli è riservato il saggio d’apertura intitolato La Civitavecchia di Stendhal. Le ultime righe sono dedicate alla città devastata e cancellata dalle distruzioni della Seconda guerra mondiale:

“La Civitavecchia di Stendhal è scomparsa, polverizzata sotto i bombardamenti dell’ultima guerra.

Non ci sono più l’Arsenale, le porte monumentali, la rocca, il faro, il porticato della Darsena, le centinaia di lapidi e di stemmi papali, la chiesa di S. Maria, Camp’Orsino, e tutte le altre opere che la patina del tempo aveva rese di una emozionante suggestività, e che Pietro Paolo Trompeo (l’appassionato stendhaliano la cui devozione per il grande scrittore può essere commisurata leggendo il Nell’Italia romantica sulle orme di Stendhal) aveva esaltato in uno scritto del 1942”.

Pietro Paolo Trompeo (Roma 1886-1958) fu docente di letteratura francese all’Università La Sapienza. Massimiliano Catoni, curatore della sua scheda sul Dizionario Biografico degli Italiani (volume 97, 2020), scrive che “per Trompeo Stendhal rappresentò un incontro felice. Figura chiave all’interno del suo lungo itinerario intellettuale, Trompeo vi sarebbe tornato più volte negli anni, in una specie di dialogo ininterrotti che, peraltro, avrebbe consentito al francesista di conciliarsi con il ‘romanista’, dal momento che l’amore per l’autore delle Promenades dans Rome si alimentava neanche troppo segretamente dell’amore per Roma”. Oltre all’amore per la sua città natale, il professor Trompeo nutrì un affetto sincero per Civitavecchia che fu meta di numerosi pellegrinaggi dedicati al suo Stendhal. Lo stesso Barbaranelli nel suo saggio del 1963, ricorda che Pietro Paolo Trompeo “fu visitatore assiduo” della biblioteca di Stendhal, allora custodita dalla famiglia Bucci “ed utilizzò più volte per i suoi scritti gli inediti stendhaliani che Clodoveo Bucci gli lasciava cercare nella biblioteca e tra le carte di nonno Donato”. Il 27 luglio 1924, quando fu celebrata a Civitavecchia la “Giornata stendhaliana” e fu scoperta la lapide commemorativa in onore dello scrittore e console francese dettata da Carlo Calisse, il giovane professore romano era presente fra le autorità convenute da Roma.

Nel 1942 Trompeo pubblicò il saggio Baruffe a Civitavecchia inserito, dopo la sua morte, nel volume Incontri di Stendhal edito anch’esso nel 1963 a cura del giovane suo allievo Massimo Colesanti, lo stesso che nel 2014 firmò la presentazione del volume Il console Stendhal e la “petite ville” di Civitavecchia di Silvio Serangeli, altro civitavecchiese innamorato e studioso di Stendhal.

Trompeo dedica bellissime parole alla nostra città, ancora intatta e non violentata dalla guerra:

“Forse ci volevamo noi, gente del Novecento, per apprezzare in piena coscienza il carattere e la poesia di Civitavecchia. E non tanto i monumenti che l’orgoglio municipale si compiace di additare ai forestieri: il forte Michelangelo incoronato di gigli farnesiani, quel che resta dell’arsenale costruito dal Bernini, la fontana del Vanvitelli così lietamente settecentesca sulla calata piena di sole; quanto le cose più riposte, meno a portata di mano: i vecchi moli con le loro svolte brusche e le loro porte barocche e rococò, la vecchia darsena coi cinquecenteschi leoni di bronzo a cui lì ossidazione ha dato tinte di malachite, gli antichi forni camerali di Pio VI che sono un vero modello di architettura razionale, l’alta piazza Leandra composta nella sua pittoresca armonia. Particolarmente raccomandabile questa piazza Leandra: rettangolare e raccolta come la nostra piazza Campitelli, ha però nel suo decoro qualcosa di cordialmente popolaresco, come una signora di provincia da cui la corona marchionale o comitale non impedisca di far lei stessa i conti col mezzaiolo ricamandoli di faceti pettegolezzi. Ha nel centro una fontana e a uno dei lati un alto marciapiede difeso da colonnine; vi si affaccia una chiesetta neoclassica che un po’ alla lontana può ricordare San Pantaleo e a cui fa riscontro dal lato opposto una chiesettina barocca incastonata in una casa borghese … e tra le casette plebee ce n’è una più galante coi balconi settecenteschi, e un palazzo settecentesco anch’esso, con una lapide che ci avvisa esservi nato e vissuto l’umanista e archeologo Pietro Manzi”.

Arrivarono poi le distruzioni del 14 maggio 1943 e degli altri giorni in cui Civitavecchia fu stuprata dalle bombe degli aerei angloamericani, dalle mine poste dalle truppe tedesche in ritirata, dalle scelte sbagliate dei suoi amministratori forse dettate dalla fretta, di una scriteriata ricostruzione degli edifici “in economia come sono, in un povero stile Novecento” che “accrescono il senso dello squallore”. Pietro Paolo Trompeo pubblicò su La Stampa del 27 maggio 1950 un lungo articolo, Pellegrinaggio a Civitavecchia, dove descrive la città devastata e snaturata dalla guerra che non è più quella che lui aveva ammirato ed elogiato nel 1942, in cui aveva vissuto e lavorato cento anni prima il suo amato Stendhal:

“Pellegrinaggio stendhaliano, ma non solo stendhaliano. Dopo tanti anni (e quali anni!) ho voluto rivedere i luoghi abitati e frequentati da Stendhal, ma anche risalutare il vecchio porto pontificio a cui mi legano ricordi di amici scomparsi e di poetici sopraluoghi.

Civitavecchia non era per me la triste città polverosa e lebbrosa, mista di sudicie viuzze e di costruzioni burocratiche senza carattere che Taine attraversò con disgusto qualche anno prima del 1870. Nelle mie frequenti gite ci avevo scoperto bellissimi edifici del tempo di Pio VI (granai, forni statali, caserme) che per l’elegante funzionalità dell’architettura avrebbero potuto servir d’esempio ai costruttori d’oggi; e fortini, fornaci, archi, fontane, nel labirinto del vecchio porto, che rappresentavano il più bel barocco e il più bel rococò. Quanto al forte cinquecentesco, co’ suoi robusti torrioni angolari e la sua corona di gigli farnesiani, non c’era bisogno di scoprirlo, tanto la sua fierezza s’imponeva a chiunque, e così l’Arsenale berniniano, l’Antemurale, e più in là la Darsena vecchia con le teste leonine del più bel rinascimento per ormeggiarvi le navi, d’un bronzo perfettamente ossidato che pareva malachite. Se Taine non degnò tutto questo nemmeno di uno sguardo, o d’un ricordo, fu perché non ebbe altra preoccupazione se non quella di ritrarre impressionisticamente l’umanità primitiva che gli si presentò allo sbarco, su lo sfondo del sudiciume salmastro. Musset, almeno, aveva sentito la grandiosità di quell’abbandono, in quei bellissimi versi al fratello: ‘Tu l’as vu cet antique port – où dans son grand langage mort – le flot murmure … ‘

Oggi di Civitavecchia non è rimasto quasi più nulla, e del porto nulla di nulla. I bombardamenti a tappeto degli Alleati e le mine dei Tedeschi han ridotto la città a un mucchio di rottami. Non ho visto, dopo la liberazione, le rovine di Cassino e di Ortona. Ma ho rivisto Anzio nel 1945. Ebbene, lo spettacolo di desolazione che me ne rimane nella memoria non è nulla rispetto a quello che ancora oggi offre Civitavecchia. Le poche case nuove si contano su le dita, e costruite in economia come sono, in un povero stile Novecento, accrescono il senso dello squallore. Il forte Michelangelo è in piedi, ma sgretolato e sbocconcellato. Su la calata semidistrutta s’innalza lo scheletro del campanile di Santa Maria, con le campane ossidate dalla salsedine, ma della chiesa non c’è più traccia. Delle teste leonine della Darsena vecchia n’è rimasta una sola. Nel cuore della città, per larghi spazi, si cammina sull’impiantito dei fabbricati rasi al suolo, come nelle città dissotterrate dagli archeologi. Si ha l’impressione d’esser dei posteri, capitati qui dopo migliaia d’anni.

E le case abitate da Stendhal? Il palazzo Bucci, già sede del suo consolato, è in piedi, graffiato appena da qualche scheggia di bomba: ma quel che le bombe non hanno fatto, ci han pensato a farlo le tristi necessità economiche: l’ufficio di Stendhal, dove fino a pochi anni fa si conservava la sua biblioteca meta di devoti pellegrinaggi da tutte le parti del mondo, è stato miseramente tramezzato, e il pavimento a mattonelle maiolicate è scomparso. Il neoclassico palazzo Palomba, in piazza del Plebiscito, ha subito danni ben più gravi: il terzo piano, quello dove Stendhal abitò nei suoi ultimi anni, lascia vedere il triste vuoto dell’interno, e le finestre sembrano le occhiaie d’un teschio. Non un mattone rimane della casa a Campo Orsino, la più caratteristica, quella che il nostro amico chiamava il suo ‘nid d’hiorndelle’ dove scrisse in parte Lucien Leuwen e la Vie de Henri Brulard. La si vedeva affacciata sul porto, alta, luminosa, e bastava un poco di affettuosa fantasia per ravvisarci alla finestra il console romanziere. Lui stesso ci aveva dato l’avvio: ‘Dalla mia stanza – scriveva al suo vecchio amico napoletano Domenico Fiore, stabilito in Francia da più di trent’anni – ho una veduta e un’aria stupenda; getto in mare i raspi d’uva prelibata che ci portano dall’isola del Giglio a venti leghe da qui; la vedo dalla mia finestra’. E a Sainte-Beuve: ‘Se volete venire a passare due mesi o due anni nel mio appartamento di Civitavecchia, sarete il padrone dei miei libri e del più bel mare che ci sia, Tyrrhenum”.

Dobbiamo ringraziare Pietro Paolo Trompeo, Fernando Barbaranelli e Silvio Serangeli per il loro infinito amore per Civitavecchia e per Stendhal, per il loro generoso e cospicuo tributo alla storia e alla cultura della nostra Città.

©RIPRODUZIONE RISERVATA