di AURORA GAROFOLO



CIVITAVECCHIA - «Questa è n’ammazzatura; si tanto me dà tanto, c’arimani». Ha ragione Ugo Marzi, solo uno dei poeti nostrani: per chi scrive, per chi si prende l’incarico di mettere emozioni e percezioni su carta alla portata di tutti, ‘‘rendere’’ l’esperienza di partenza è a volte estremamente faticoso; eppure i poeti civitavecchiesi, per quanto ognuno con la sua sensibilità, hanno trovato quella che parrebbe una chiave comune per aprire la porta delle evocazioni poetiche: paradossalmente, la concretezza. Siamo abituati ad associare parole come ‘percezione’, ‘tempo’, ‘ricordo’, ‘irrazionale’ ai nomi di Freud, Montale, Ungaretti, Pirandello. Coloro che seppero entrare, con varie forme, all’interno della psiche umana e capire il suo rapporto con emozioni, sensazioni e tutto l’iceberg nascosto sotto il pelo dell’acqua. C’è chi lo fece e tutt’ora lo fa usando oggetti-simbolo, allegorici oppure scelti strategicamente per solleticare un determinato ramo del nostro subconscio: i correlativi oggettivi. Tuttavia nessuno è riuscito a farlo attingendo semplicemente a piene mani da una Realtà, peraltro popolare, senza modificarla né filtrarla con concezioni ideologiche o letterarie. È il vissuto stesso, tale e quale si è formato e poi dissolto nel passare degli anni.



«Perché la poesia nasce da la sofferenza, dal dolore, dal trauma de la Bellezza, da lontano». Volendo parafrasare Balilla Mignanti nella suddetta chiave: la sofferenza e il dolore che il poeta vive nel suo contesto naturale; il lontano, cronologico e non, dove il poeta vuole tornare e far tornare; il trauma della Bellezza, una talmente grande che evidentemente l’unica soluzione possibile per regalarla a chi legge, è non cambiare assolutamente nulla da come è stata vissuta. Spezzoni di vita materiali, pragmatici quanto lo sono stati e senza nessuna retorica néintellettualismi ma il racconto di un anziano a fine giornata, che si diverte a narrare in rima ma che contiene più verità di un film documentario. Forse non è un caso che, non tutti lo sanno, Antonioni tornò due volte a mangiare al Marangone. Civitavecchia è pregna di Neorealismo. In parte a causa dell’ esperienza dei bombardamenti, che si possono dire il simbolo del desiderio di rinascita consapevole che il Neorealismo specie cinematografico propugnava dagli anni 50, ma non solo; perché se questi poeti di classe compresa fra gli anni 30 e 40 sono arrivati a descrivere tradizioni culturali e gastronomiche di più di un secolo antiche - come la pizza di Pasqua descritta da Igino Alunni - un motivo ci sarà.



È perché la Civitavecchia poetica è stata ancorata alla propria storia e tradizioni da ben prima che la guerra o il progresso arrivassero a renderle passate. «[...dov’è finita] l’epoca bella de’ pennini e inchiostri, / der fiocco bianco sur sinale nero?/ ...infónno so’ l’istesso de comm’ero, // e l’istesso è la vetrina, co’ste cose / che so’ arimaste identiche, curiose.../ càmbia la faccia ch’ariflette er vetro, / e ‘sta valiggia che me porto dietro // pesa più assai de la cartella piena... / ...e c’è ‘na ruga de scoràta pena / traverso er vetro, e pare veramente / ‘na riga nera su cartassorbente». Quello in ‘‘Puglièsi’’, di Giuseppe Croce, come pure in ‘‘Artro che Disneyland’’ di Carlo de Paolis, è una sorta di esistenzialismo alla civitavecchiese: gli autori si aggrappano con forza all’oggettistica che caratterizza i ricordi d’infanzia, ed alla dimensione più schietta di essa: i pennini, i dolcetti tipici, consistenze, odori, sapori certamente correlativi oggettivi dell’infanzia di ognuno, ma mai trasfigurati in un senso filosofico qualsivoglia, né sfruttati a scopo retorico; prettamente oggetto di uno zoom sensoriale, che invece di risultare meramente terreno e utilitaristico, si carica di un ‘‘Oltre’’ concettuale e cronologico, risvegliando sensazioni e anche valori decaduti ma, a differenza di tanta poesia novecentesca, senza scomporli in metafore e simbolismi prolifici. La poesia Civitavecchiese ci insegna che nella Realtà c’è tutto ciò che serve per continuare a ricordare, e a sognare.