di ENRICO CIANCARINI

Kurd von Schlözer era un diplomatico prussiano inviato alla corte papale nel 1863. Amava vagabondare per i paesi del Lazio ancora sotto il dominio di Pio IX. Fra questi, visitò Civitavecchia:

“La sola cosa degna di nota in questo paesetto (oppure in questo “covo” di ladri, NdT) è l’antica “Trattoria al Moro” nella piccola Via Giuliana. Quando un romano viene a Civitavecchia, non tralascia di visitare questa bettola. Qui ci sono i pesci migliori, che vengono preparati per la “zuppa alla marinara”. In tali autentiche trattorie italiane la gastronomia fa strani scherzi: per esempio si servono meloni col salame, pere col formaggio, fichi col prosciutto. La cosa suona terribile, ma alla fine [il tutto] si mescola proprio armonicamente” Da Römische Briefe 1864-1869 (Lettere romane), a cura di Karl von Schlözer, IV edizione, Stoccarda – Berlino 1913, p. 133 (traduzione di padre Giuseppe De Leo).

Per queste poche righe, Kurd von Schlözer entra a pieno titolo nella storia moderna della zuppa di pesce civitavecchiese. È il primo, allo stato attuale delle ricerche a parlarne e a testimoniare che la “zuppa alla marinara” era un piatto particolarmente gradito ai romani, quelli ricchi, che si potevano permettere una gita in treno a Civitavecchia per visitare la “Trattoria al Moro” e assaporarla.

Carlo De Paolis, nel fondamentale Breviario di Cucina Civitavecchiese (1998) pubblica un telegramma di Giuseppe Garibaldi, datato 29 luglio 1879, che in procinto di arrivare a Civitavecchia “intima” al suo compagno d’armi e ristoratore Scipione Matteuzzi, che gestiva il Buffet della Stazione “Preparate cacciucco colle aragoste”. Anche Clelia, la figlia dell’Eroe, scrive nelle sue memorie che il padre a Civitavecchia “mangia una volta al giorno; sempre una sola pietanza, per lo più di pesce” e “quella sera, il pranzo fu un lusso: zuppa alla marinara e un piatto di carne” (Mio Padre ricordi di Clelia Garibaldi, seconda edizione 2007).

Particolarmente interessante, quanto pubblica L’Illustrazione italiana del 3 gennaio 1886 nell’articolo Il “cottio” nella pescheria di Roma:

“Fra le città dell’Italia continentale Roma è quella che, dopo Napoli, consuma maggior quantità di pesce di mare. Il prodotto della pesca vi abbonda e vi giunge da tutte le parti …

Qualità di pesce molto stimata e riservata altrove alle mense de’ ricchi figurano a Roma sul desco modesto di molte famiglie, e si trovano nelle osterie. La “zuppa di pesce” meno satura di pepe rosso del cacciucco livornese e viareggino, e più saporita della bouillabaisse marsigliese, è piatto comunissimo e si trova in tutte le trattorie dell’antico stile, ne’ giorni di magro.

Durante molti mesi dell’anno, lungo la spiaggia del Tirreno fra Civitavecchia e Nettuno, in punti spesso deserti, il cacciatore e il mandriano incontrano fermi, sul far della notte, alcuni carri a due ruote, con un robusto mulo sotto le stanghe, ed un cavallo sellato attaccato a bilancino. Quei carretti hanno errato per mezza giornata lungo la spiaggia aspettando il segnale di fermarsi delle paranze di pescatori che vedonsi a due a due, a qualche chilometro dalla spiaggia. Dopo il tramonto le paranze si avvicinano alla spiaggia, mettono in mare le barche e mandano a terra il pesce appena pescato, accomodato con rara maestria e più rara sollecitudine dentro canestri rettangolari fatti di stecche di faggio. Carichi di quelle ceste i carretti partono per Roma al trotto e vi giungono prima di giorno, il carrettiere essendo a cavallo, è obbligato a star desto ed a correre”.

Garibaldi parla di cacciucco (Matteuzzi era d’origine toscana), il diplomatico prussiano e Clelia di zuppa alla marinara come fanno i giornali capitolini dell’epoca che danno notizia delle vacanze al mare dei romani: “entrate in trattoria per gustare una zuppa alla marinara” (Roma Antologia, 7 agosto 1887). Fernando Barbaranelli, ricorda Carlo De Paolis, pubblica un menù di Ferragosto, a prezzo fisso, consumato alla “Trattoria del Falcone” per la modica spesa di 70 baiocchi, in cui i commensali gustarono “salati, pane e vino, consumè, zuppa alla marinara, quattro piatti, dolce, formaggio e frutta”.

Gli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, sono gli anni più felici per la ristorazione civitavecchiese e per la zuppa, piatto civitavecchiese per eccellenza. Sulle guide dell’epoca si consiglia di mangiare alla Trattoria del Gobbo, alla Trattoria della Stella, da Maria. Le pubblicità su Civitavecchia “Vedetta imperiale sul mare latino” (1932) promettono “zuppa di pesce a tutte le ore” a prezzi modicissimi (Trattoria del Ferroviere, via Umberto I n. 83) mentre al Ristorante Bottiglieria Bar Piemontese (Viale Garibaldi) la specialità è la zuppa di pesce alla marinara e si parla inglese e francese.

Forse il riconoscimento più singolare alla nostra zuppa di pesce è tributato da un giornalista della Stampa (4 luglio 1938) inviato in Giappone al seguito di una delegazione ufficiale del PNF. Gli italiani sono in visita nella città di Shimonoseki, famosa per la pesca del pesce palla, e perciò considerata la “capitale del fugu”, il piatto in cui è servito tale pesce, tossico e letale per l’uomo senza un’adeguata preparazione. Il giornalista, che si firma Toddi (pseudonimo di Pier Silvio Rivetta), apre l’articolo affermando che “nel mezzo del centro del Giappone si può gustare una italianissima zuppa di pesce” sul terrazzo del Ristorante “Alaska”. E prosegue: “In quel vasto terrazzo coperto, gli ospiti italiani hanno gustato e lodato una zuppa di pesce più eccellente ancora di quella che richiama i Romani in un’osteria della calata del porto, a Civitavecchia”!

Certamente noi civitavecchiesi non possiamo accettare che a Shimonoseki si cucinasse una zuppa di pesce migliore della nostra ma dobbiamo essere orgogliosi che la nostra zuppa sia stata il termine di paragone di questa impropria gara gastronomica fra la cucina italiana e quella giapponese.

Non tutti però potevano venire a Civitavecchia ad assaporare la gustosa ed eccezionale zuppa di pesce. D’altra parte, in quegli anni le regioni italiane lontane dal mare avevano serie difficoltà ad approvvigionarsi di pesce fresco per tutta la popolazione. Così a fianco della “battaglia del grano” dichiarata da Benito Mussolini nel 1925, il regime si adoperò anche nella “guerra del pesce” al fine di aumentare la produzione nazione ittica, un fenomeno che successivamente, dopo le “inique sanzioni” del 1935, fu appellato “Autarchia peschereccia”, titolo della relazione al secondo Convegno nazionale di studi autarchici pubblicata sul Bollettino di pesca, di piscicoltura e di idrobiologia (1940), presentata da Gustavo Brunelli, studioso e direttore dell’Ufficio per la Pesca del ministero dell’Agricoltura che per anni si adoperò a favore dell’industria peschereccia italiana.

È sempre Brunelli a ricordarci che la “guerra del pesce” ebbe in Civitavecchia una delle basi più agguerrite, grazie ad una nutrita flotta di pescherecci oceanici destinati a rifornire il mercato nazionale di pesce fresco, riducendone così l’importazione e il conseguente deficit commerciale:

“Per la pesca oceanica gli sforzi fatti dalla Società I.P.E.S., prima nel mare del Nord, attraverso difficoltà quasi insormontabili, e poi nel Marocco, meritano di essere ricordati. La grande industria dello scatolamento del pesce oceanico iniziata e sviluppata dalla S.I.P.O.C. in collegamento con la I.P.E.S., ha permesso di realizzare, per la prima volta in Italia, l’industria dei sottoprodotti, per mezzo di una grande fabbrica sorta a Civitavecchia, la quale produce, oltre al pesce scatolato, olii e farine di pesce. Il relativo macchinario potrà servire eventualmente per una stazione sperimentale della industria conserviera, di cui si sente la necessità” (Problemi tecnici della pesca nazionale in La pesca nei mari e nelle acque interne d’Italia, 1931).

La Società Italiana Pesce Oceanico Conservato SIPOC con sede a Civitavecchia in via Bixio 2 (resto sempre dell’idea di cambiare nome alla via, dedicandola al Baccalà) per alcuni anni commercializzò in tutta Italia i suoi prodotti. Sui giornali dell’epoca apparvero queste pubblicità:

“Basta un piccolo sforzo di memoria … e se vorrete mangiare una eccellente zuppa di pesce, acquisterete una scatola di Cacciucco (zuppa di pesce) della S.I.P.O.C. di Civitavecchia

Aprite la scatola, scaldatene il contenuto: versate quindi su fette di pane la gustosa salsa composta di olio di oliva, pomodoro e fini aromi; guarnite il piatto con i pezzi di pesce contenuti nel sugo e avrete pronta in pochi istanti una zuppa eccellente.

In vendita ovunque in scatole da grammi 600 e da grammi 300” (da La Stampa, 12 ottobre 1930).

Una zuppa di pesce in scatola prodotta a Civitavecchia con il pesce pescato nell’Atlantico e pubblicizzata come Cacciucco, tipico di Livorno. Chissà se quella zuppa risultava pure buona al palato. L’iniziativa industriale e commerciale non ebbe successo e la guerra, quella vera, pose fine definitivamente alle ambizioni dell’impresa.

Dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale, Civitavecchia iniziò faticosamente la sua ricostruzione materiale e culturale. La zuppa di pesce ritornò sulle tavole dei ristoranti civitavecchiesi e anche la Festa nazionale dell’Unità le rese omaggio:

“La cucina non sarà comunque un monopolio del settore femminile: quello dei contadini e delle cooperative ha un programma gastronomico notevole, dove fa spicco per originalità la famosa zuppa di pesce di Civitavecchia che per l’occasione si trasferirà a Roma”. (L’Unità, 24 settembre 1952).

Erano gli anni del boom economico e della motorizzazione di massa, i romani scoprivano la gita domenicale al mare. I ristoranti di Civitavecchia erano affollatissimi di gitanti che ordinavano la zuppa. L’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Civitavecchia per favorire questo flusso benefico per le casse dei locali civitavecchiesi organizzò le “Giornate della gastronomia” in cui i ristoratori civitavecchiesi entravano in gara fra loro presentando i loro migliori piatti:

“La regina incontrastata di questi piatti è la zuppa di pesce che, preparata da sapienti cuochi, secondo antiche ricette segrete, ma soprattutto utilizzando pesci di scoglio freschissimi, ha dato fama e rinomanza a vari ristoranti locali, oltre che più in generale alla città” (Decennale 1964-1974).

Fama e rinomanza che la Confraternita dell’antica zuppa di pesce e della cucina tradizionale di Civitavecchia, nata due anni fa il giorno di Santa Fermina, vuole rivitalizzare perché convinta che la zuppa di pesce sia un’eccellenza gastronomica della cucina italiana e un patrimonio della Città da salvaguardare e far di nuovo conoscere ai visitatori della città e, mi spingo a dire, agli stessi civitavecchiesi.

Per questo oggi, 2 giugno 2023, siamo a Fano al Brodetto Festival per partecipare alla gara nazionale fra le zuppe di pesce italiane rappresentando Civitavecchia e le sue tradizioni gastronomiche sfidandoci con il nostro chef Valterio Mastrogiovanni con le zuppe e i cuochi di altre cinque regioni: Liguria, Toscana, Veneto, Marche e Puglia.

Nell’audace spedizione siamo supportati dal Comune, da Conad Nord Ovest, dalla Cooperativa di Pesca “Marinai e Caratisti”, dalla Pro Loco, dallo Slow Food, dalla Società Storica e da tanti amici e sostenitori, fra cui Gabriella Sarracco e Giancarlo Frascarelli che da subito hanno creduto nel progetto. La chef Patrizia Manunza ha fornito la necessaria assistenza tecnica nell’acquisto e nella preparazione del pesce utilizzato nella competizione.

Il tutto per ritornare a far dire a tutti gli amanti della buona e tradizionale cucina italiana, come Vittorio Gassman ne Il sorpasso, “andiamo a Civitavecchia e ci facciamo una bella zuppa di pesce”!