Continua “Faccia a Faccia”, la rubrica targata Crc che fa immergere gli appassionati di palla ovale all’interno del mondo biancorosso. Il protagonista stavolta è l’assistente allenatore Stefano D’Angelo.

Dove e quando ha iniziato a giocare a Rugby?

«Complicato identificare un momento esatto. Probabilmente già nel pancione di mia madre. Mio padre era un rugbista, lei lo seguiva sempre , in tutte le partite e le trasferte. Ho praticamente vissuto da sempre in questo ambiente e cominciato a giocare le mie prime partitelle nella under 6. Ricordo i miei primi allenamenti dietro le porte del Fattori con Stefano Emiliani e Maura Antonini, ricordi indelebili nella mia memoria, poi tutta la trafila nelle giovanili del Civitavecchia con Giorgio Moretti, allenatore e uomo straordinario poi una bellissima esperienza a Roma nella Lazio di Mario Ricciardi con Ambrogio Bona , poi di nuovo a Civitavecchia per vivere con un gruppo straordinario l’esperienza della prima promozione in serie B da giocatore-allenatore. Insomma una vita sul campo».

Che cosa pensa del rugby, in particolare del Civitavecchia, ha una funzione oltre che sportiva anche sociale da espletare e se si perché?

«Il rugby in generale ha una funzione sociale, i suoi principi, l’attitudine necessaria ad essere un rugbista sono elementi essenziali in campo e fuori per la formazione e la crescita dei ragazzi. Nel nostro sport le regole e il rispetto sono le basi per essere un eccellente giocatore, di conseguenza un uomo. Chi si avvicina al campo e al rugby sposa uno sport e una filosofia di vita. I genitori trovano nelle società un luogo certo e sicuro che può contribuire alla crescita non solo fisica ma soprattutto etica e morale dei propri figli».

In base alla sua esperienza, quali sono le qualità più importanti per allenare un team come quello del Rugby Civitavecchia?

«Il Crc è un esperimento complicato, allo zoccolo duro dei giocatori di Civitavecchia si uniscono giocatori di formazione ed estrazione diverse, giovani dell’accademia , uomini con esperienze in squadre di grande livello, stranieri con esperienze internazionali, e giovani di formazione casalinga, per tutto questo chi tiene le redini deve essere un uomo di polso, di sintesi, di esperienza ed un leader naturale al quale da tutti venga riconosciuta la statura necessaria in campo e fuori. Insomma ci vuole il “manico” giusto o si fallisce».

La pressione di vincere è una componente imprescindibile per un allenatore , come influisce questa idea sul ruolo si può tramutare in paura di vincere?

«Non sono d’accordo. Se un allenatore va in campo con la pressione di vincere o con la paura di farlo non può essere un buon allenatore. L’unico pensiero e l’unico obiettivo è quello di fare il massimo, di dare tutto, di tirare fuori il meglio da ogni singolo giocatore, se si fa questo tutto arriva di conseguenza, si possono anche fare meno punti ma se hai dato il 110% hai comunque vinto».

Il rugby cambia in modo veloce da un punto di vista tecnico, ma da quello attitudinale vede dei mutamenti e in quale direzione?

«Sicuramente oggi si gioca ad una velocità folle, con una intensità di molto superiore a qualche anno fa, gli impatti sono violenti e continui ma i principi sono gli stessi, questo sport a mio parere sta tornando alla semplicità dei suoi fondamentali con una applicazione tecnica molto più professionale. Il talento dei singoli poi fa sempre la differenza, sono i fenomeni che alla fine impongono un adeguamento, i giocatori straordinari cambiano il nostro sport molto più di qualsiasi altro sport, imponendo agli altri di trovare soluzioni al loro gioco. Aspetto con ansia il prossimo».

Secondo la sua esperienza riesce a darci una percentuale del Rugby Civitavecchia su questi temi: passare in serie A1, passare in serie A2.

«A questa domanda ho già risposto implicitamente prima, dobbiamo dare tutto; seguendo le indicazioni di un allenatore straordinario come Bona, affidarci al suo metodo e fidarci di lui. Lo dico per esperienza personale, se ne esce giocatori e uomini migliori. Il resto verrà di conseguenza».

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