«Una mela avvelenata per il territorio, il danno anche d’immagine sarebbe incalcolabile, pregiudicando alla radici il nostro futuro».

Famiano Crucianelli, presidente del Biodistretto della Via Amerina, sintetizza così le conseguenze per il Viterbese che rischia di ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi e l’annesso parco tecnologico.

Un rischio che, visto l’atteggiamento di Sogin, potrebbe concretizzarsi.

«Oltre 300 documenti critici presentati finiti tutti nel cestino. - elenca - Non sono state prese in considerazione le osservazioni scientifiche, economiche, sanitarie portate dal territorio, nonostante le nostre richieste non è stato possibile accedere agli atti per capire come si è arrivati alla scelta delle 21 aree idonee, su un totale di 51 a livello nazionale, nella nostra provincia».

Non solo. Crucianelli rivela anche che la richiesta di un incontro con l’allora ministro Frattini rimase lettera morta mentre «dopo poche settimane incontrò sindaci e istituzioni piemontesi».

«La Tuscia rappresenta l’1% del territorio nazionale ma la possibilità di ospitare il sito di stoccaggio di scorie nucleari sfiora il 50%» rimarca per poi stigmatizzare la narrazione di Sogin che «mette insieme scorie ad altissima e alta-media attività in una struttura in superficie. Mentre i rifiuti ad altissima attività devono essere sotterrati».

L’intervento durante l'incontro, organizzato da Tuscia in movimento No scorie a Palazzo Gentili, che prende le mosse dalla marcia di protesta del 25 febbraio.

Iniziativa che ha visto la risposta corale di 35 sindaci e istituzioni del territorio. Ma scarsa partecipazione da parte delle popolazioni. Come sottolinea Carlo Falzetti, presidente del comitato Montalto Futura. «Non bastano 15 comitati e 35 sindaci, né fare ricorso al Tar, se il popolo non si muove il nostro territorio non ha scampo. Non basta sventolare bandiere, vinciamo solo se il popolo si muove» rimarca lanciando l'appello a una grande mobilitazione di massa.

Sull’esempio di Scanzano jonico, in Basilicata, dove su una popolazione provinciale di 250mila persone sono scese in piazza contro il deposito in 150mila.

Mentre la Tuscia, il 25 febbraio, ha risposto con 2-3mila manifestanti. Ha poi posto l’accento anche su un problema di giustizia sociale: «Noi non abbiamo produzioni industriali, le scorie devono stare dove vengono prodotte» e sul fatto che realizzando un deposito unico «si va a creare un obiettivo militare in questo particolare contesto di conflitti».

In apertura dei lavori, il saluto istituzionale della sindaca Chiara Frontini. «Viterbo, pur non essendo un Comune direttamente coinvolto sta facendo la sua parte perché quella contro il deposito è la battaglia di tutto il territorio. E’ ora di dire basta alla terra di Tuscia vista come approdo di tutto ciò che gli altri non vogliono, dai rifiuti delle altre province alle scorie nucleari dell'intero Paese».

Insieme alla prima cittadina presente l’assessore Silvio Franco, intervenuto in qualità di docente universitario di economia dell'ambiente. La relazione di Gabriele Antoniella, presidente del Biodistretto del Lago di Bolsena, ha concluso gli interventi dei territori. La parola è poi passata ai tecnici: Leonardo Varvaro, già professore dipartimento Dafne Unitus; Antonio Menghini, geologo, e Antonella Litta in rappresentanza dell’Ordine dei medici di Viterbo