di CARLO CANNA



CIVITAVECCHIA - La storia della Processione del Cristo Morto di Civitavecchia, nota anche come Processione del Venerdì Santo, ha origini molto antiche che risalirebbero attorno all’anno Mille, quando la manifestazione era chiamata “Processione degli Incappucciati”, poiché i fedeli indossavano un cappuccio che gli copriva il volto. L’espiazione delle proprie colpe attraverso la penitenza, si inserirebbe così un momento storico ben preciso dominato dalla paura per l’imminente fine del mondo. Secondo altre fonti sembra tuttavia che la Processione risalga all’avanzato Medioevo. Vi sono poi altri elementi che sono riconducibili all’antico corteo della liberazione del condannato alla pena capitale o al carcere istituito nella prima metà del XVII secolo dall’Arciconfraternita del Gonfalone, che ancora oggi organizza la sacra manifestazione. Notizie più certe e dettagliate si hanno solo a partire dagli inizi del XVIII secolo, quando Padre Jean- Baptiste Labat, ci dice che la Processione si effettuava in modo assai più cruento rispetto ad oggi. Sappiamo infatti che all’epoca non era previsto solo il trasporto di grosse croci e statue portate sulla spalla o di pesanti catene legate ai piedi, ma anche l’autoflagellazione mediante veri e propri strumenti di tortura come “un mazzo di cordicelle annodate, ferrate all’estremità” o “grosse palle di cera munite di pezzi di vetro”.



Tutto ciò produceva grandi effusioni di sangue tra i penitenti e, come se ciò non bastasse, questi erano accompagnati da persone che di tanto in tanto gettavano del vino o dell’aceto sulle loro piaghe. Una possibile motivazione che spingeva i fedeli a flagellarsi ci viene fornita dallo stesso domenicano francese attraverso queste parole, riferite ai “Penitenti Bianchi”: “essendo molto più ricchi…sono molto più generosi e offrono un più abbondante spuntino a quelli che vengono a flagellarsi sotto il loro abito; e come in Normandia i testimoni non parlano che in proporzione di quanto uno li fa bere, ugualmente a Civita Vecchia non si flagella che in proporzione al buon trattamento”. Tra le figure del corteo religioso descritte dal Labat colpisce poi quella centrale, del Redentore, descritta nel seguente modo:” un uomo con il vestito strappato, coronato di spine, le mani legate e caricate di una pesante Croce. Egli rappresentava il Salvatore. Era accompagnato da sette o otto Carnefici, che lo tiravano a strattoni con delle corde, e da altrettanti Soldati armati di corazze, elmi e lance, che rappresentavano i Romani, Soldati di Pilato…”.



Tuttavia, leggendo tra le righe del religioso, nonostante l’impiego di queste durissime punizioni corporali, si evince chiaramente come diversi aspetti della Processione siano rimasti invariati nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni. Tra questi, solo per citarne alcuni, si ricordano la presenza di figure - tra le altre - degli “Angeli” (bambini vestiti di bianco che portano i simboli del martirio del  Redentore) e della “Veronica” (una bambina vestita con abiti da suora) o il trasporto delle statue raffiguranti “Gesù Ecce Homo” e “Maria Addolorata”. Il Labat sottolinea infine l’aspetto scenografico creato da quelle antiche torce e lampioni che, ieri come oggi, illuminano il corteo nell’oscurità e conclude ricordando come all’epoca “tutta la Città fosse in Processione”, quella stessa città che anche questa sera, come ogni anno, si riunirà ancora una volta per partecipare alla secolare manifestazione divenuta oramai un evento noto anche oltre i confini nazionali. 



Riferimenti bibliografici: Francesco Correnti e Giovanni Insolera 1995; Giovanni D. De Paolis 2005